sabato 24 aprile 2021

                                   VI

  I CANTI SESTI DELLE TRE CANTICHE

   Nella lettura della Commedia colpisce la complessa e rigorosa razionalità dell’architettura progettuale dell’opera, nella cui articolazione risalta anche la relazione logica e simbolica dei Canti VI dell’Inferno, VI del Purgatorio e VI del Paradiso.

   Nel Canto VI dell’Inferno, il Poeta incontra il simpatico fiorentino Ciacco, che in vita pensò solo ai piaceri della gola, e lo fa parlare delle caratteristiche dei suoi concittadini, che al contrario di lui, goloso e godereccio, si scannano nell’invidia, nell’avarizia e nella superbia.

   Nel Canto VI del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano Sordello. Al palesamento di costui come mantovano, Virgilio e Sordello si abbracciano nel comune sentimento di amor di patria in quanto entrambi mantovani. Al vederli abbracciarsi, Dante prorompe nell’apostrofe all’Italia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello/ Nave senza nocchiero in gran tempesta/ Non donna di provincie ma bordello!...”.

   Nel Canto VI del Paradiso, il Poeta fa parlare l’imperatore Giustiniano, che ripercorre la storia di Roma e del suo impero, per poi condannare i guelfi e i ghibellini, le cui lotte sono manifestazioni di interessi particolari, che provocano la decadenza dell’impero.

   Ciò che per primo qui mi spinge a parlare di questi tre Canti è l’evidente simbologia numerologica della loro collocazione nell’architettura del poema: Canto VI di ogni Cantica.

    Sotto il profilo degli ordinali sembrerebbe tutto normale, ma se quegli ordinali si fanno cardinali, allora appare qualcosa di sorprendente, cioè che i numeri 6-6-6, tolte le lineette di separazione, formano il numero 666, che, a prima vista, appare come il cosiddetto numero della Bestia, cioè il numero del diavolo.

   Ma nel caso di Dante mi pare troppo azzardata e semplicistica l’identificazione del 666 col numero della Bestia, poiché le sue conoscenze sulla simbologia dei numeri dovrebbe essere stata vasta e approfondita non solo riguardo alla cabala e alla numerologia pitagorica, ma anche a quella dei Templari. 

  Questa considerazione non mi sembra avventata o superficiale, giacché abbiamo osservato e considerato precedentemente quanto il numero tre e suoi multipli, specialmente il numero nove, siano significativi nella Vita Nova e nella Commedia, in particolare nell’identificazione del numero nove con Beatrice.  

    Infatti, sempre seguendo i comuni i procedimenti numerologici, si può o si deve procedere alla somma delle cifre 6+6+6 = 18, per cui con altro passaggio si ha 1+8 = 9.  E così si torna al numero 9  di Beatrice!

    Ma poiché non ho alcuna preparazione in fatto di simbologie numerologiche, non posso inoltrarmi in ipotesi improbabili: mi basta sottolineare l’importanza che la numerologia assume non solo nell’architettura della Commedia, ma anche nella complessità del sapere  e del linguaggio dantesco.

   Dei tre Canti, però, mi coinvolge, non meno della simbologia numerologica, l’argomento politico, per cui mi sorge la domanda: Perché Dante l’ha voluto mettere così in risalto nei tre Canti?

   Nei commenti ci si sofferma più o meno sempre sul percorso della purificazione spirituale  del Poeta e ben poco sulla passione politica che ne ha lacerato il cuore e la vita nell’amarezza delle sue vicissitudini: “Conoscerai quanto sa di sale/ Lo pane altrui e quanto è duro calle/ Lo scendere e ‘l salir per altrui scale”!

   Eccolo qua, nei tre Canti, il Dante vivo che sanguina nella carne per la sua profonda delusione: ha voluto e vorrebbe ancora agire per il bene della sua Firenze e per il bene dell’Italia, ma la malvagità degli uomini che lottano per i propri particolari interessi, non solo glielo hanno impedito, ma lo hanno condannato all’esilio e a perdere il bene supremo della famiglia.

   Ed allora non mi pare che il suo pensiero politico debba essere considerato tanto secondario rispetto al percorso spirituale tracciato nel suo poema. Basterebbe rifarsi alla “selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura”, cioè alla selva non intesa come momento di disorientamento morale di Dante, ma come groviglio di accadimenti perversi sul piano politico che sconvolgono la sua vita e ne determinano la precarietà esistenziale e la sofferenza spirituale, con la sola consolazione della speranza di ritrovare “la diritta via” in un cambiamento delle condizioni e dell’azione benefica dell’impero.

    

 

 

 

 

 

,

 

                      

giovedì 1 aprile 2021

                       LA POESIA COME ARMA VENDICATIVA

  La lupa, la lonza e il leone sono le tre bestie che “nel mezzo del cammin di nostra vita” e nella “selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” si oppongono a Dante nella sua risalita verso il monte della speranza.

   Se le tre bestie nemiche sono i simboli dei suoi tre nemici, a parte le interpretazioni dei numerosissimi e autorevolissimi commentatori della Commedia, allora la lupa personifica Bonifacio VIII, il leone Carlo di Valois, ed è evidente che la lonza “dalla gaietta pelle” (le interne fazioni dei fiorentini) stia a rappresentare Firenze, come origine di tutti i mali del Poeta.

   Dante è stato colpito con le calunnie nella sua dignità personale e con l’esilio nei suoi affetti più profondi, nonché nei suoi interessi economici, sociali e politici; egli perciò è spinto a reagire con tutte le sue forze e le sue armi, comprese quelle più aspre, a vendicarsi per quanto gli è possibile, dei suoi nemici, specialmente dei suoi concittadini, da cui si sente offeso e tradito mortalmente.

   Con la condanna all’esilio e la minaccia di morte è ridotto ad essere solo contro tutti, senza altre armi che la sua poesia, con cui si scaglia contro Firenze e i suoi concittadini, a volte superando anche i limiti del suo senso di giustizia. Impossibilitato a reagire concretamente nel presente, egli non può che vendicarsi nella storia, distruggendo con i suoi versi la fama dei suoi avversari, specialmente dei suoi concittadini. Lo fa in diversi episodi della Commedia, ma io qui mi limito a rifermi solo ad alcuni che più mi colpiscono.

    Così nel Canto VI dell’Inferno, quando incontra Ciacco, gli fa dire: “La tua città ch’è piena/ D’invidia che già trabocca il sacco”.E questa non è una carezza per  la sua amata Firenze. E su richiesta di Dante, Ciacco soggiunge: “Dopo lunga tencione/ verranno al sangue e la parte selvaggia/ Caccerà l’altra con molta offensione/ Poi appresso convien che questa caggia/ Infra tre soli, e che l’altra sormonti/ Con le forze di tal (alludendo a Carlo di Valois) che testé piaggia”. Qui ci si può sottindendere la domanda: In questa città così turbolenta e crudele tutti i cittadini hanno invidia l’uno dell’altro e ognuno odia l’altro? E Ciacco la previene e risponde: “Giusti eran due (uno è Dante?) e non vi sono intesi/ Superbia, invidia e avarizia sono/ Le tre faville ch’hanno i cuori accesi”.

    Il giudizio che Dante fa pronunciare a Ciacco sulla sua Firenze e sui suoi concittadini sa di colpi di staffile. Non l’ironia dunque, non il sarcasmo che può affiorarare in un animo distaccato o anche turbato, ma staffilate che vengono da un cuore lacerato e sanguinante, combattuto tra amore e odio, carico di risentimenti vendicativi e livore che rasenta l’ingiustizia, poiché anch’egli aveva fatto parte precedentemente alla cacciata dei Neri.

    Non meno significativa è la vendetta poetica di Dante nei confronti del concittadino Filippo Argenti nel Canto VIII dell’Inferno. Nei confronti di questo suo concittadino dannato tra gli iracondi, il sentimento vendicativo è implicito, poiché Dante non ne dice il motivo, , ma tutto l’episodio e specificamente il risentimento di Dante fanno dedurre un forte spirito vendicativo del Poeta e pensare ad un motivo del tutto personale non rivelato, ma volutamente taciuto.

   Più che di sarcasmo sembra trattarsi di un vero e proprio insulto aggressivo, allor che gli si rivolge dicendogli: ”Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto?” L’Argenti non dice il suo nome, ma Dante lo aggredisce: “Con piangere e con lutto/ Spirito maledetto ti rimani/ Ch’i’ ti conosco ancor se’ lordo tutto”. Poi però Dante fa gridare il nome di lui da tutti i condannati suoi compagni: “A Filippo Argenti!” / E il fiorentino spirito bizzarro / In sé medesmo si volvea co’ denti”. Così la sua fama veniva distrutta nelle future generazioni, gravissima condanna in quanto  “dannazio memoriae” già largamente praticata con altri mezzi dai romani.

   Nel canto XV dell’Inferno, fra i violenti contro natura, Dante ha un incontro col suo maestro Brunetto Latini. Un incontro così sorprendente che  fa esclamare Brunetto, rivolto a Dante: “Qual maraviglia!”;  che poi con l’espressione di un grande affetto aggiunge: “O figliuol mio, non ti dispiaccia/ Se Brunetto Latino un poco teco….” Nei versi traspira l’atmosfera di affetto, che è propria del rapporto maestro-scolaro. E bella è l’espressione del Maestro nel riconoscere nell’antico alunno il genio ormai fiorito nella poesia, tanto che dice a Dante:: “…Se tu segui tua stella/ Non puoi fallire a glorioso porto/ Se ben m’accorsi nella vita bella/ E s’io non fossi sì per tempo morto/ Veggendo il cielo a te così benigno/ dato t’avrei all’opera conforto”.

   Ma poi gli predice le disgrazie che gli saranno procurate da Firenze:   “…. Ma quello ingrato popolo maligno/… Ti si farà per tuo ben far nemico/ … “Vecchia fama nel mondo li chiama orbi/ Gente è avara, invidiosa, superba/ Da lor costumi fa che tu ti forbi.

    Voglio concludere questo mio breve discorso con un’ultima nota, un ultimo  “episodio”,  quello  dei dannati per furti. Dopo che nel Canto precedente Dante aveva descritto le trasformazioni serpentesche  di cinque ladri fiorentini, inizia il successivo Canto XXVI con l’invettiva:” Godi Fiorenza, poiché se’ si grande7 Che per mare e per terra batti l’ale….” Il sarcasmo di questi versi contro la sua Firenze, resa famosa per i suoi ladri, risuona tagliente e forte nella storia letteraria del mondo presente e futuro.; una bella vendetta per il cittadino e l’uomo Dante.

venerdì 12 marzo 2021

 

OMAGGIO A DANTE: 1321 – 2021

                             LA POESIA COME ARMA VENDICATIVA

 

  Esta selva selvaggia aspra e forte/ Che nel pensier rinnova la paura” (Inf.Canto I)  è la trappola di calunnie lanciate contro Dante per eliminarlo dalla vita politica di Firenze, in quanto uno dei sei priori e, dunque, uno del gruppo dirigente di parte bianca del governo della città. Coloro che hanno ordito la trappola con la conseguente condanna sono i tre nemici personificati nelle tre fiere: Bonifacio VIII, i fiorentini  e Carlo di Valois.

    Dal giorno in cui seppe di essere condannato all’esilio, Dante dovette peregrinare per varie corti d’Italia ad elemosinare un asilo politico ed esistenziale, e a “conoscere quanto sa di sale / lo pane altrui e quanto è duro calle/ lo scendere e il salir per altrui scale” (Par. Canto XVII: con la conseguenza di una carriera politica distrutta, di una vita familiare sconvolta, di un’esistenza ormai resa tormentata a fronte di un futuro precario e minaccioso.

  Un uomo dalla statura morale e culturale di Dante, così calunniato ed offeso, non può non lottare per una rivalsa, non può non reagire fino a sviluppare momenti di spirito di vendetta nei confronti di coloro che gli hanno tolto il diritto di agire per il bene di Firenze, che lo hanno allontanato dalle gioie della casa e della famiglia e che lo hanno bandito dalla patria.

   Ma Dante è solo, non ha un esercito e non può che sperare nell’avvento del Veltro e nell’intervento dell’imperatore Arrigo VII. Ha però un’arma, una sola arma incruenta ma potente, la poesia, che può brandire come strumento di propaganda nel suo tempo e come spada da affondare dentro la storia per agire vendicativamente nell’eterna posterità.

   Con i suoi versi affilati come lame, lancia la sua vendetta contro Bonifacio VIII nel diciannovesimo canto in cui tratta della pena del contrappasso dei simoniaci. Là interroga papa Nicolò III Orsini, che fa rispondere con involontario sarcasmo: ”Se’ tu già costì ritto/ Se’ tu già costì ritto Bonifazio? / Di molti anni mi mentì lo scritto. / Se? tu tosto di quell’aver sazio// Per lo qual non temesti torre a inganno/ La bella donna, e poi di farne strazio?”

   E’ una situazione comica, in cui Dante fa rimproverare Bonifacio VIII  da Nicolò III, che con sarcastica impudenza gli rinfaccia gli stessi suoi peccati, che poi sono quelli propri della lupa nella selva oscura,  se’ tu tosto di quell’aver sazio…”, cioè la cupidigia dell’ avere, per cui si ha “più fame che pria” (Inf. Canto I).

   In quella situazione, Dante verso il suo nemico Bonifacio non lancia invettive, come fa Iacopone da Todi nelle sue Laudi, che lo colpisce con un linguaggio così aspro che sa di colpi di scure e di clava; ma nei suoi versi pare che si diverta con colpi di fioretto, con un linguaggio che irride e insieme sbeffeggia Bonifacio VIII: potrei dire con una vendetta servita fredda, che si prolungherà nella storia, fino a noi e oltre noi attuali lettori.

  A questo mira Dante, cioè a vendicarsi col distruggere l’immagine di Bonifacio VIII macchiandone la fama nella storia. Bonifacio VIII ha sconvolto la vita di Dante nella sua esistenza; Dante lo ripaga d’altra moneta ben più solida, perché ne distrugge la fama, cioè nella dimensione che va ben oltre l’esistenza e a cui i personaggi danteschi si richiamano con un sentimento così intenso che essa sembra sia un effettivo prolungamento della vita terrena. 

  E Dante non lascia la presa con l’episodio di Niccolò III e i simoniaci. Ci ritorna nel ventisettesimo Canto con l’episodio di Guido da Montefeltro, condannato nella bolgia in cui stanno coloro che in vita consigliarono altri  ad agire con frode.

   E Dante qui non dà più di fioretto sarcastico, va dritto con colpi d’ascia contro Bonifacio VIII. Fa dire a Guido: “Se non fosse il gran prete a cui mal prenda!/ Che mi rimise nelle prime colpe”(Canto XXVII, v.70-71). Infatti, BonifacioVIII, maligno ingannatore a sua volta, gli promise l’assoluzione preventiva, sostituendo il suo come vicario di Dio, al giudizio di Dio, e lo convinse a suggerirgli l’inganno con cui distruggere Palestrina ed abbattere i Colonna suoi nemici.

 E poi fa soggiungere a Guido: Dopo che io volevo emendarmi dalle colpe del passato, facendomi francescano, venne da me lui, “il principe dei farisei” (Canto XXVII- v. 85) che mi fece cadere di nuovo nelle antiche mie colpe.

   Dunque, qui, con “il gran prete a cui mal prenda!” e con “il principe de’ farisei” siamo ai modi delle invettive di Iacopone. Ma Dante si riprende subito e torna al fioretto dell’ironia, al sarcasmo, facendo dire al diavolo che aveva preso Guido, dopo una lezioncina di logica sul principio di non contraddizione e con maligno sarcasmo, “Tu non pensavi ch’io loico fossi” Canto XXVII-v123).

  Così Dante si vendica della “lupa”, di BonifacioVIII, precipitandolo all’inferno già prima della sua morte: a parte l’inferno, oggi sono i versi di Dante che dannano il suo nome, è la sua  cattiva fama  che i versi della Commedia fissano nella memoria dei posteri di tutto il tempo posteriore alla composizione della Commedia, dentro la storia. E questa è la vendetta maggiore, perché l’uomo cerca di sopravvivere a se stesso nella fama, nel ricordo di sé presso coloro che vivranno: Ed ora Bonifacio VIII non potrà mai più essere ricordato come  papa cristiano nell’animo, ma sarà ricordato per sempre dai posteri come assetato di potere, simoniaco, come tessitore d’intrighi, e soprattutto             ingannatore di uomini.

 

 

 

lunedì 22 febbraio 2021

 

                                    OMAGGIO  A  DANTE. 1321 - 2021

                                                LA  SELVA  OSCURA

   Anche con la manifestazione di semplici opinioni personali, al di fuori dai soliti schemi della cosiddetta critica classica, mi sembra si possa proporre un rispettoso e doveroso ossequio al Sommo Poeta nel settecentesimo anniversario della sua morte.

   Anzi, pur nella veste di semplice lettore, mi pare di essere obbligato a parlarne, anche senza averne il crisma storicoletterario. Come era lecito ai semianalfabeti bovari e pecorai cantare i versi della Commedia nei campi, come ricordo avveniva ancora tra le due guerre mondiali, pur senza che sapessero di lettere e retorica, penso che anche io, da semplice lettore, oggi possa e debba formulare opinioni e giudizi, condivisibili o meno, concordi o meno con i giudizi dei critici, cui è riconosciuta giustamente l’autorità nelle lettere. Non mi sembra giusto, infatti, che a poter parlare di critica letteraria, anche a riguardo di Dante, possano essere soltanto loro, cioè i critici.

  Certamente non mi sembra facile ragionare intorno al vastissimo mondo dantesco; né mi pare semplice orientarmi dentro un orizzonte in cui si aprono innumerevoli prospettive d’interesse. A me basta però accennare brevemente solo a qualche aspetto, a qualche particolare che si pone alla mia attenzione con più risalto. Forse di più non saprei.

   Confesso che ciò che mi suscita un senso di soddisfazione nella lettura dantesca è quel largo respiro che provo quando riesco a liberarmi dell’ammasso di note e di sottigliezze critiche, che ad ogni pagina e verso si mostrano in sovrabbondanza, e che si ripetono e sovrappongono quasi sempre col solito senso di pesantezza, se non d’intralcio e noia.

   Il mio piacere nella lettura è di poter pensare e dire cose che potrebbero essere anche banali, forse anche non condivisibili da molti o da tutti, ma frutto di personali riflessioni, dei miei sentimenti, delle mie opinioni, cercando però di leggere e capire sempre quel che effettivamente Dante ci dice del suo tempo e del suo mondo.

  Ad esempio, voglio dare qui un cenno, solo un cenno, su Beatrice, in riferimento a quanto i critici ne vogliono ostinatamente l’identificazione con una donna reale, con la Beatrice Portinari, che forse il Poeta non avrà mai conosciuta e forse mai vista. Come se i poeti, secondo loro, debbano per mestiere attenersi al reale, invece che per loro stessa natura correre dietro l’immaginazione creativa, anche per la personificazione di un sentimento, di un ideale, di un valore.

  In proposito mi voglio riferire a quanto dice Dante nel secondo capitolo della Vita Nova ( a parte quel che il Poeta ne fa col numero nove) “…la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare ”. Dunque non i suoi genitori la chiamarono Beatrice, ma “molti…. che non si sapeano che si chiamare”.

   Sembra proprio di vedere un gruppo di poeti o di aderenti ad un circolo di intellettuali, che volendo personificare un’idea, o un loro ideale, discutono su quale nome dare ad un loro simbolo (“non si sapeano che si chiamare”) poi vengono in accordo di chiamarlo Beatrice. Che cosa c’entra, dunque, una donna carnale?

   Un altro aspetto che mi sembra dover discutere è quello della “selva oscura”, intesa dalla moltitudine dei critici come momento di disorientamento morale di Dante. Sarà davvero come dicono essi, per accumulo d’impressioni e deduzioni sula base di presunti dati storici, che forse hanno ben poco a che fare con la personalità e i veri problemi di un Dante?

   A me sembra davvero strano che un uomo della levatura intellettuale e morale di Dante, combattivo nella lotta politica fino a meritare la carica di priore di Firenze, abbia avuto una tale crisi morale, per cui la sua diritta via era smarrita proprio nella sua piena maturità di vita, cioè nell’età di trentacinque anni. Ma che avrà mai potuto commettere Dante? A sentire di questa sua crisi morale, sembra che egli si sia dato alla bella vita, al gioco, alle droghe, o anche alla lussuria e all’avarizia, fino a implicitamente ammettere le colpe, di cui era accusato dai suoi calunniatori.

   Invece, ed è stato scritto ben chiaramente, in quell’età, a trentacinque anni, nel 1300, l’uomo politico Dante viene accusato di numerose e bieche colpe, condannato all’esilio e bandito da Firenze con minaccia di morte. Altro che via smarrita, c’è da crepare! La calunnia delle accuse e la condanna all’esilio non producono nel Poeta un grande turbamento e una conseguente crisi di orientamento nelle sue decisioni, che implicano problemi e difficoltà enormi nella sua vita, cioè nel suo cammino e nel suo futuro? Altro che smarrimento della diritta via! Altro che selva oscura!

    Ne seguono uno smarrimento e tante sofferenze che nel suo poema poi faranno dire al suo avo Cacciaguida: “ Tu proverai sì come sa di sale | lo pane altrui, e come è duro calle | lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.“. E se la selva di cui parla al principio dell’Opera, è il cumulo enorme e pesante dei suoi problemi e delle minacce che gli provengono dai nemici, possiamo chiederci chi fossero i nemici che  dettero origine ai gravi danni che lo tormentarono per il resto della vita.     

   Dante stesso ce li indica: sono una lupa, una lonza ed un leone che stanno in agguato nella selva. Quali nemici sono indicati simbolicamente da queste tre bestie, le cui immagini si sovrappongono l’una dopo l’altra, in modo da far pensare che esse siano alleate nell’arrecargli danno?

   Evidentemente sono tre potenze che egli non può affrontare da solo e che per opportunità, ma forse anche per esigenze poetiche, personifica nelle bestie. Son i fatti storici a indicarci i nemici rappresentati dalle tre bestie: sono i fiorentini che lo hanno esiliato, è il re di Francia alleato con il papa, sono la chiesa e il papa, che hanno determinato insieme la vittoria dei neri, la cacciata dei bianchi e l’esilio di Dante.

   Il Poeta si sente perduto, ma intanto, per non arrendersi e non soccombere, si affida alla speranza di vendetta da parte di un futuro Veltro (l’imperatore come dicono i più o Dante stesso, come dice Jung?) che sconfiggerà le tre bestie e lo libererà dalla loro ferocia.

   Di fronte all’esilio dalla sua patria e dalla sua famiglia, per resistere e sopravvivere, egli intanto ricorre al suo più potente strumento, che non può essergli strappato, la poesia, cui si affida nella consolazione, ma che spesso brandisce come una spada per una giusta vendetta: la poesia come arma di lotta, ma anche spesso come espressione di profonda umanità. 

 

martedì 16 febbraio 2021

   1321 – 2021/ OMAGGIO A DANTE

Nell’occasione dell’anniversario della morte di Dante, ripubblico qui di seguito la nota che scrissi e pubblicai sul mio blog in data appresso indicata

sabato 19 aprile 2014

      ANCORA SULLA POESIA ALLEGORICA  E LA BEATRICE DANTESCA 

Dunque l’opera dantesca è espressione di una complessa architettura allegorica, anche se nella Commedia episodi come quelli d   i Francesca, del Conte Ugolino, di Pier delle Vigne, per dirne solo alcuni, sono solo espliciti quadri di profonda umanità e non fanno parte di alcun linguaggio esoterico-allegorico.
   Della complessa architettura simbolica, qui a me pare sufficiente accennare brevemente al linguaggio dei numeri, limitatamente alla Vita Nova e alla Commedia, cioè alle opere in cui emerge la figura di Beatrice, a cominciare dalla domanda: può essere reale una donna, la cui figura è pensata tutta in relazione al numero nove?
   Di questo numero nove, che appare sin dal Cap. II della Vita Nova in relazione alla figura di Beatrice, Dante stesso, dopo la morte di Beatrice, si accinge a sottolinearne l’importanza e nel Cap. XXVIII scrive: “Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e nella sua partita (morte) cotale numero pare che avesse molto luogo, convenesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che  pare  al proposito convenirsi”.
   E poiché la Vita Nova oltre che opera allegorica appare anche didascalica, comunque rivolta a “chi sa”, cioè ai Fedeli d’Amore, nel Cap. XXIX Dante mostra come il senso del nove “secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade” personifichi Beatrice, anzi, dice “ più sottilmente pensando…… questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così”. Secondo questa affermazione, quindi, Beatrice e il significato simbolico del numero nove sono la medesima cosa. Poi spiega: “Lo numero del tre è la radice del nove…. Siccome vedemo manifestamente che tre via tre fa nove” (cioè, tre al quadrato fa nove).
Nella Commedia il numero tre si fa simbolo portante di tutta l’architettura dell’opera. Tre endecasillabi costituiscono ciascuna strofa (terzina incatenata);  trentatré canti (il tre ripetuto in coppia, o numero di gemelli come detto nel gioco del lotto) per ogni cantica del poema; tre cantiche compongono il poema.
   Il numero (tre – nove – trentatré) è quello che di più appariscente costituisce il linguaggio simbolico ed esoterico della Vita Nova e della Commedia. Un linguaggio allegorico inteso a comunicare  un sapere segreto a chi quel codice  simbolico conosce, giacché in una società chiusa, autoritaria, violenta, come quella che anche Fo illustra efficacemente nel suo Mistero Buffo, una libera circolazione delle idee è quanto meno impensabile. Ci voleva poco a finire arso vivo come fra’ Dolcino, a finire in una di quelle terribili torture destinate ai cosiddetti eretici, la cui manifestazione di pensiero diverso e libero poteva minacciare il sistema di potere ben più di una compagnia di ventura assoldata da un signore o da un vescovo di quel tempo.
   Noi oggi non ci rendiamo conto di quanto fosse chiusa, rigida e crudele la struttura sociale, culturale e politica nel tempo di Dante. Né ci rendiamo facilmente conto dell’opportunità, se non della necessità, del ricorso all’allegoria nella poesia di quel tempo.
  Infatti da più di qualche secolo noi oggi siamo in una società aperta, in cui la circolazione delle idee non solo è ammessa e garantita, ma ne costituisce l’arricchimento e ne connota il carattere.      Proprio per questa nostra libertà di parola e di pensiero, essendo divenuto inutile, il linguaggio allegorico sarebbe avvertito come fastidioso. Sicché per opportunità dei tempi, oggi la poesia allegorica è scomparsa, certamente senza rimpianti.

 

 

 

  

venerdì 12 febbraio 2021

 

                   1321 – 2021/ OMAGGIO A DANTE

Nell’occasione dell’anniversario della morte di Dante, ripubblico qui di seguito la nota che scrissi e pubblicai sul mio blog in data appresso indicata

mercoledì 9 aprile 2014

             LA POESIA ALLEGORICA E LA BEATRICE DANTESCA  

  Nella letteratura, il lavorio di molti critici nei secoli fa non di rado sorridere. .Non  parlo del lavorio per chiarire pensieri e commentare opere con un proprio vocabolario appropriato, ma di quello del ricercare puntigliosamente, fra le righe e le parole degli autori, qualcosa che gli autori medesimi non vi hanno messo e, anzi, di inventare più di qualche cosa che gli autori non hanno inteso dire.

  E’ il caso del lavorio di molti critici nei confronti di Beatrice, la creatura poetica di Dante ed anche, forse in minor misura, di Laura, creatura poetica del Petrarca.
  Hanno voluto identificare per forza  donne reali con quel nome, quando donne reali nelle opere poetiche di cui si parla non ci sono. Sanno bene che nelle opere dantesche ci sono allegorie, ma non ammettono che tutta l’opera di Dante è allegorica, compresa, quindi, la figura di Beatrice, che, come dice il Poeta nella Vita Nova, cap.II “La quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare”. In proposito è bene subito notare che “fu chiamata da molti” Beatrice, non da tutti, quindi, ma  solo da quelli che conoscevano il codice di comunicazione, cioè dai Fedeli d’Amore.
   Riguardo a Beatrice, è vero che cominciò il Boccaccio a volerla identificare con la Portinari, proprio il Boccaccio che tanto critico non è, quanto poeta e scrittore; evidentemente però volle attaccarsi anche lui per primo la malattia dei critici, quella d’inventare ciò che non c’è nelle opere commentate. Ma va che il Boccaccio non l’abbia fatto apposta!
  A riguardo di Beatrice, basterebbe tener presente la complessa personalità culturale di Dante, che non era solo quella del poeta o del letterato.
  Si potrebbe dire che Dante poteva essere egli stesso quasi un’enciclopedia incarnata e personalizzata, una “summa” del sapere del suo tempo; e che egli non  solo sapeva utilizzare al massimo dell’efficacia come suoi personali strumenti il pensiero aristotelico-tomista e il sistema tolemaico,  ma certamente era anche padrone di complessi sistemi simbolici  ed esoterici, le cui tracce potrebbero essere riferibili a saperi sotterranei, come ad esempio a quelli dei Templari e a quelli degli gnostici. 
   D’altra parte i saperi segreti hanno sempre avuto corso sotterraneamente nelle società autoritarie e chiuse di ogni tempo, figuriamoci al tempo delle eresie, dei roghi, delle streghe, dei maghi. Come Dante avrebbe potuto esprimere e comunicare saperi e tesi divergenti in quel suo tempo così ricco di fervori religiosi e di eresie ferocemente condannate, quando si mandavano al rogo i Templari, fra’ Dolcino e chiunque accusato di magia e stregoneria,  se non attraverso un complesso linguaggio simbolico organizzato e finalizzato alla circolazione delle idee verso e tra  “chi sa”, cioè verso e dentro una cerchia  ristretta di adepti in grado di riconoscere ed interpretarne correttamente  il codice di comunicazione? Dante stesso, nel IX canto dell’Inferno, scrive: “ O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ‘l velame de li versi strani”.
  Sono molti ormai che hanno messo in luce l’architettura  allegorica delle opere  dantesche, dell’irrealtà di Beatrice e della sua metafora. Eppure si continua ad insegnare nelle scuole la favola di un’ignota Beatrice Portinari per non voler scoprire il senso del “velame de li versi strani” che sta a difesa tuttora  di secolari incrostazioni di “potere”, difficile ancora oggi da scuotere.
    Infatti nelle opere dantesche Beatrice è solo una delle figure simboliche, fra quelle di Virgilio, Lucia, S. Bernardo, l’Aquila, la Rosa, ecc. Ne cominciarono a parlare dopo tanti secoli Gabriele Rossetti,  pronto a riconoscerne i linguaggi simbolici in quanto rosacrociano, poi Foscolo, Pascoli, Luigi Valli, René Guenon e via via tanti altri.
   Se ne proseguì a parlare a mano a mano che certi “poteri” si affievolivano nel tempo (ancora nel Seicento fra’ Tommaso Campanella era accusato di tenere nascosto un  diavoletto nell’unghia d’un suo mignolo!) mentre altri poteri emergevano dalla storia e trionfavano sugli antichi, specialmente con la Dichiarazione d’Indipendenza dell’America e la Rivoluzione Francese. Ma a parlarne furono voci pur sempre soffocate, tenute ai margini della cosiddetta ufficialità, tanto da  mantenere  soprattutto nelle scuole la puerile interpretazione, che indica nella  Beatrice dantesca la carnale Beatrice Portinari: segno che non tutte le incrostazioni dei vecchi “poteri” che affondano le radici nei sistemi del pensiero medioevale sono state rimosse dalle strutture politiche e culturali della nostra società.

 

mercoledì 3 febbraio 2021

 

  • Pubblico qui di seguito questa poesia tratta dal mio SCORCI
  • Edito da Vitali in Sanremo
  •                CAMPOSANTO DEL MIO PAESE
  •                           (Sui ruderi della villa romana dei Claudi)
  •                        
  •             Camposanto silente del mio paese,
  •             Dove le ossa dei miei sepolte riposano
  •             E dove le mie la tomba non avranno,
  •             Da sempre ti ho in mente, luogo di mistero
  •             E di cipressi come funerei pennoni
  •             Protesi nell’azzurro.
  •  
  •             Già villa di patrizi antichissimi
  •             Per i cui atri ornati di colonne fastose
  •             Andavano matrone e festose ancelle danzavano
  •             Nel tedio dei ricchi, or nei ruderi sei
  •             Sepolcro di  poveri, posteri forse
  •             Di schiavi che un tempo leggero premevano
  •             Sulla pelle lo strigile nel bagno aulente
  •             Ai superbi padroni.
  •  
  •             Pur cambiano i tempi e ora ivi
  •             Le ossa di mio padre in una buca
  •             Di terra si macerano, perché tornino polvere
  •             In trionfo di vita, d’erbe fiorite e d’alberi,
  •             Di nidi, di canti, di voli d’uccelli
  •             Come egli in saggezza richiese.
  •             Ma lungo i viali sopra camere ornate
  •             D’antichi mosaici, sepolcri marmorei
  •             Dei nuovi arricchiti nomi e date riportano
  •             Illusi di vivere per sempre nel tempo,
  •             Per soltanto una scritta su un’urna di pietra,
  •             Inane custodia delle ossa fatte fragile
  •             Calcina nel fluire incessante del mondo.
  •  
  •             Così è che oltre i palazzi per i vivi
  •             Oggi si fanno quasi santuari le tombe per i morti;
  •             E i cimiteri sono città di defunti
  •             Che tetre avviluppano quelle alacri dei vivi.
  •             E’ così che il progresso che  è vanto moderno
  •             Gli uomini ha spinto a un luogo medesimo
  •             Per morire e per nascere di dentro a una clinica,
  •             A un’industria di nati e a una di morti,
  •             A città di defunti laddove potrebbe
  •             Per ciascuno bastare per dopo la morte
  •             Un’ampolla di cenere.
  •  
  •             Esiguo camposanto, m’attesti tu quanto
  •             Con le antiche rovine e le tombe recenti
  •             E’ vana pretesa arrestare il volgere del tempo
  •             Nell’illusione atavica di vivere oltre
  •             Il limite estremo degli eventi che segnano
  •             Il principio e la fine. Così come sei
  •             Ti guardo commosso col trepido                                         
  •             Occhio non più fanciullo ma tenero ancora
  •             D’immagini antiche che affollano
  •             La memoria di suoni, delle voci di tanti
  •             Che conobbi e che vidi e che ora riposano                                      
  •             Nella tua terra  sepolti.
  •             Ti guardo silente, ma so che finché avrò vita
  •             Sarà solo il mio cuore di quelli che ho amato
  •             Camposanto fiorito.